Una volta un amico mi ha detto 'se leggi Moby Dick devi farlo con la Bibbia a portata di mano, ogni nome nel romanzo è biblico'.
Chi legge questo libro deve farlo con la musica a portata di mano. E anche con un browser a disposizione per navigare verso gli infiniti mondi che si aprono in queste pagine.
Questa storia inizia di lunedì con un bus che parte dal Sud del Jersey rurale diretto a New York “montai sull’autobus a vent’anni. portavo calzoni di tela, un dolcevita nero e il vecchio impermeabile grigio comprato a Camden. Dentro la piccola valigia scozzese in giallo e rosso c’erano le mie matite da disegno, un blocco, Illuminazioni, qualche vestito e una fotografia di mio fratello e delle mie sorelle. Ero superstiziosa. Quel giorno era lunedì; ero nata di lunedì. Era una giornata perfetta per arrivare a New York. Nessuno mi stava aspettando. Ma mi aspettava ogni cosa”
Quando l’arte è dentro, a volte in una fase iniziale si può non sapere bene quale espressione troverà per esprimersi, come accadrà e quando. Nel frattempo, mentre si cerca in se stessi e si guarda il mondo, bisogna mangiare e dormire. Patricia fa la commessa in un negozio quando Robert entra con la camicia bianca e la cravatta, “somigliava a uno scolaretto cattolico”, e compra una collana persiana. “non darla a nessun’altra tranne che a me” .. lui sorride e dice “non lo farò”.
Lei è Patti Smith, lui Robert Mapplethorpe, hanno vent’anni, sono solo due ragazzini. Il vocabolario visivo di lui è affine al vocabolario poetico di lei, rappresentano “una singolare combinazione tra Cenerentola a Parigi e Faust”, “ribelli senza una causa” e devoti all’arte. Aggrappati ad un sogno.. Hang On To A Dream http://www.youtube.com/watch?v=A9pNnKxewss
Gli anni sessanta volgono al termine, Robert e Patti compiono ventitrè anni “il numero primo perfetto…lui indossava teschi. Io indossavo cravatte. Ci sentivamo pronti per gli anni settanta”. Non hanno un soldo, a volte nemmeno per mangiare, vivono in una stanza al Chelsea Hotel, coi pidocchi in testa, “bicchieri di carta per pisciare e giocattoli rotti”. Patti racconta di aver rubato un giorno al supermercato due bistecche e averle messe nelle tasche di uno dei suoi lunghi trench. È spesso avvolta nei trench, nelle cui pieghe grandi e asimmetriche si sente una principessa o una monaca. Robert scatta dalla fotocamera Polaroid, Patti scrive.
Incontrano un mondo.. la New York anni ’70 piena di artisti, poeti, musicisti. Anime inquiete, come loro. Patti non racconta l’affermazione ma la ricerca, due ragazzi in uno stato embrionale con potenzialità incredibili. Robert dirà poi “Patti, l’arte si è impossessata di noi?”.
E’ un racconto pieno di poesia e spiritualità. Patti è una superstite. Il suo mondo va via piano. Uno ad uno. Aids, overdose, suicidio. E’ un giro di persone che cerca l’immortalità e sfida la vita ogni giorno. Resta l’arte. La bellezza. E lei, dentro il suo cappotto lungo, su una spiaggia con un cielo dipinto, ferma in un attimo di infinito
Little emerald bird wants to fly away. If I cup my hand, could I make him stay? Little emerald soul, Little emerald eye. Little emerald soul, Must you say goodbye?
Ho preso le ultime quindici pagine tra le mani. Tenendo fermo l’indice sotto la copertina mentre il pollice sfogliava veloce. e m’è venuto su l’uomo leggero leggero. Dal basso verso l’altro di un grattacielo che chiunque riconoscerebbe.
Come si fa a invertire l’ordine delle cose e a tornare indietro su un pezzo di vita? come si fa quando si vuole ancora avere un quaderno bianco e tutto il tempo davanti e invece sta finendo lo spazio e non era previsto ed è successo così all’improvviso?
Oskar ha nove anni, l’11 settembre è tornato a casa perché a scuola gli hanno detto che era successa una cosa brutta. E mentre glielo dicevano non ha pensato che la cosa brutta potesse in qualche modo riguardarlo. Oskar ha un segreto, quando è tornato a casa nella segreteria telefonica c’erano cinque messaggi lasciati dal padre che chiamava dalla torre. Solo lui li ha ascoltati, solo lui ne conosce il contenuto. Ha sostituito l’apparecchio e non ha raccontato niente a nessuno. Inizia la sua ricerca. Deve conoscere quegli ultimi momenti di vita, ‘ho bisogno di sapere come è morto ho detto…per riuscire a smettere di inventare come è morto’.
Trova una chiave e vuole scoprire quale serratura apre, di quale porta. E così va in giro e gli succedono tante cose e le più paradossali lui le conserva in Cose che mi capitano. Oskar è un ragazzo geniale, inventa le cose più strane, scrive un mare di lettere per ‘alleggerirsi le scarpe’, si fa lividi sul corpo quando la sofferenza diventa insopportabile, le sue riflessioni sono incredibili. Le riflessioni esistenziali che può fare solo un bambino (quando il bambino era bambino).
Jonathan Safran Foer ci prende con le parole, con le immagini, con i colori. Ci sorprende continuamente, non si sa mai girando pagina cosa ci sarà. Un testo, una pagina bianca, una sola parola, o una frase, una fotografia, un colore, un errore, una cancellatura. E ci prende col suo racconto, col suo ritmo a tratti ossessivo ciclico ripetitivo, col suo linguaggio particolare, coi suoi personaggi, con le storie familiari da ricostruire ed ogni personaggio è un pezzo del puzzle. Ci prende coi sentimenti. Ci prende col dramma della separazione che ci paralizza, ci impedisce di andare avanti, ci riporta all’ultimo momento, inconsapevolmente ultimo, bisognerebbe capire che è proprio l’ultimo, per dire fare impedire.
E dov’è il tasto di rewind? e quando è spinto al massimo poi.. qualcosa e niente è uguale.
‘Le parole vengono facili. Alla fine del mio sogno, Eva ha rimesso la mela sull’albero. L’albero è rientrato nella terra. E’ diventato un arboscello, che è diventato un seme. Dio ha unito la terra e l’acqua, il cielo e l’acqua, l’acqua e l’acqua, la sera e la mattina, qualcosa e niente. Ha detto: Sia la luce. E il buio fu.’
"Ci sono storie di animali che fanno cose strane, senza motivo, lontane da quello che per natura quegli animali dovrebbero fare, eppure lo fanno. Perché devono farlo, come se esistesse dentro di loro qualcosa di incontrollabile, che non è l’istinto a cui obbediscono sempre, ma un altro istinto, l’istinto dell’istinto; l’altra faccia dell’istinto. … forse è quella vera. giusta. la faccia giusta" .
All’inizio ho creduto fossero racconti, con tutti questi animali metropolitani in un contesto di cemento e asfalto. E l’asfalto li inghiotte a volte. L’anatra pneumatica e la zecca indecisa, la sogliola rossa come una ferita fresca, il polipo coi binari. Il granchio strabico e l’acciuga sconosciuta. Le formiche torturate dalla nonna. Gli animaletti rossi infiniti e il falco pensiero. Due pit bull e un setter. Il gatto con la schiena rotta sull’asfalto e gli occhi in su che vorrebbero fare rewind sulla vita.
Poi piano sono apparsi gli uomini. Carmine o schiattamuort, Slator l’albanese detto Salvatore, o’ Rugnus. "Quando soffrono gli uomini sono come gli animali. Il dolore non si sceglie o si conosce prima, arriva quando vuole. E si fanno tante cose nella sofferenza; si mangia, si beve, si piange, si spera, si pensa. Ma in realtà non si fa nulla. Tranne questo: obbedire al dolore stesso. L’obbedienza, il collo che stringe e non fa respirare, il mondo che si sbriciola in una stanza e in un letto, in una camicia da notte che diventa vestito, quest’obbedienza è puro istinto. E’ un modo di vivere. Diventa quotidianità. Istinto. Un istinto continuo. Come gli animali"
Quelle degli uomini mi sembravano altre storie. Ma non è così. Alcuni uomini sono padroni di alcuni animali e c’è una storia ambientata in provincia di Caserta, tra il mercato, la tangenziale e i campi di calcetto. Bisogna ricostruirla. I personaggi, uomini e animali, anche se per un po’ di capitoli vanno ognuno per ‘i cazzi suoi’ (come ha detto l’autore) poi si ricompongono nel puzzle. Qualcuno resta (e accende la luce prima che faccia buio) qualche altro se ne va in un posto del mondo a riprendere il filo interrotto.
Nel libro ad un certo punto in mezzo ad animali e uomini c’è una lettera e dice "Caro Carmine, … dopo vari tentativi di suicidio, mi metto a scrivere. Credo di essere diventato, negli anni, molto bravo a scrivere. Nel senso che in ogni racconto riesco a metterci la vita e la morte con la stessa intensità. Pochi scrittori, quelli grandi, ci riescono. Io ci riesco. Io penso che uno scrittore sia grande quando in ogni sua frase c’è dentro tutto il senso della vita".
Piccirillo è grande. E l’accostamento tra il nome proprio di persona e l’aggettivo sembra una contraddizione e una burla, ma non lo è.
Madame Claire Delmas è francese, una donna letteraria dagli occhi geologici (pietre preziose non classificate), dai capelli di miele, dalla bocca che mangia bene, la bocca baciatrice di parole, dalla dolcezza statica, dalla passività profonda di donna, pozzo aperto alle cadute più totali. Cerca un uomo, è greco ed è l’uomo della sua vita. Lo dice “con una voce che si conforma alla sua immagine di donna dell’alba, una voce che sembra essere appena uscita dalle lenzuola”. Non è prudente quando è in gioco qualcosa che le interessa davvero.
Di fronte a lei il detective Pepe Carvalho ascolta.
Siamo nello studio di Pepe, un ufficio anni Quaranta in rovina, sembra “riscattato dalla liquidazione di un arredo di scena ideato da un produttore di film di Humphrey Bogart”. Pepe è lì, vestito con abiti forse maldestramente messi insieme e recuperati in una vendita di fine stagione. La guarda. “ci sono donne che fanno dolere il petto quando si contempla la forma esatta e contenuta delle loro carni, donne che basta che ti guardino perché la pedata di piombo ti spezzi lo sterno e una dolce asfissia ti impedisca di pensare all’esistenza dell’aria”. L’ascolta. Quel racconto letterario, frutto di un’educazione postromantica, un’educazione che ha omesso di passare per Robbe Grillet, Artaud, Genet, Celine e che fa sì che l’uomo cercato, il greco, risulti ridicolo agli occhi di chi ascolta. Ma Claire se ne infischia, va avanti con la sua descrizione e la sua richiesta. Quando sarà lontana, a Carvalho non resterà che “fare a pezzi quella presenza, come chi cerca di capire l’arma che lo ha ucciso con il procedimento di smontarla e sentire in mano il peso di ogni pezzo, il suo volume, la sua tesatura”. Ma ora è qui e bisogna cercare Alekos, l’immigrato greco scomparso, nel dedalo dei quartieri di Barcellona devastati dalla speculazione edilizia.
Così conosco Pepe Carvalho. Non avevo letto nulla di Manuel Vazquez Montalban.
Pepe non legge i libri, li brucia. Nel suo studio dimesso accoglie a sorpresa i suoi ospiti francesi con vini bianchi d’annata (Poully Fumé del 1983, Sancerre ’84, Chablis ’85). E’ un cuoco eccellente, le sue baroccate in cucina sono degustate dall’amico Fuster che gli rimprovera di cucinare per nevrosi, quando è ossessionato da qualcosa di non ben digerito. E infatti Pepe confessa “mi piace troppo una donna e non mi piace che una donna mi piaccia troppo. … Mi irrita sentirmi vulnerabile, anche solo per quarantotto o settantadue ore”. Nell’elenco delle sue stramberie e cose inutili c’è il fatto che prende lezioni sul caffè da un amico di plaza Buensuceso, dal quale si fa preparare una miscela di otto etti di colombiano di prima qualità e due etti di tostato dominicano. E’ malinconico e prigioniero delle sue memorie di cui, pare, vorrebbe disfarsi. La moglie Muriel e la figlia sono morte. Ha una relazione complicata con Charo, suo cliente preferito nell’amore pagato. Si invaghisce di Claire che è una di quelle donne che non si sa se stiano andando o venendo, e che rappresenta un mistero non risolvibile. Vive un rapporto sofferto con Barcellona, la sua città, che “gli muore nella memoria e smette di esistere nei suoi desideri” perchè gli angoli della memoria sono trasformati in cantieri, i suoi riferimenti distrutti: Bromuro il lustrascarpe, la miserabile pensione in cui vive, bar, strade. Leggo in rete che “il suo passato è intenso, lacunoso, movimentato: militante comunista, prigioniero politico durante il regime franchista, poi agente della CIA negli stati Uniti” prima di diventare investigatore privato a Barcellona, sua città natale.
A proposito di detective letterari, mi viene da pensare ad un ispettore che ho conosciuto un po’ di tempo fa e mi stava simpatico, Maurizio Lupo. Dopo Buio Rivoluzione mi sono chiesta che ne è stato di lui. Lo ritroveremo tra le righe o no? Valerio, che dici?
Le ho viste tra le righe, visitate, abitate. Le città. Avevano una coordinata precisa in una carta o erano eteree e impossibili.
Ricordo la New York di Céline “...era in piedi la loro città, assolutamente diritta. New York è una città in piedi”.
E la Venezia di Mann. Città in cui si deve arrivare “per nave …dall’alto mare” perché entrare nella città “per via terra dalla stazione, significa entrare in un palazzo dalla porta posteriore”.
Poi Napoli. Quella di Malaparte, misteriosa e antica, rimasta intatta alla superficie del mondo moderno e quella di La Capria “che ti ferisce a morte o t’addormenta, o tutt’e due le cose insieme”.
Caserta, la mia città, “distratta” nelle parole di Pascale. Dépendance borbonica, ha la struttura del castrum. “Caserta è quadrata, tanto qualunque strada prendete ci mettete sempre venti minuti.”
Sono tante, la memoria mi restituisce queste. Città che hanno un posto nelle mappe.
Ma “accanto a questo mondo ce n’è un altro. E vi sono punti in cui si può sconfinare”. Sconfinando ho visto Isidora, nelle parole di Merrill Block. In questa città nessuno ricorda nulla, è una terra senza memoria “dove ogni bisogno è esaudito e ogni tristezza è dimenticata”, il semplice desiderio controlla ogni cosa, non c’è paura della morte perché non c’è cognizione della morte e ci si innamora anche mille volte della stessa persona e sempre per la prima volta.
E poi ho visto nelle pagine di Calvino un’altra Isidora, città cui si giunge in tarda età perché è la città dei ricordi.
Isidora memore e Isidora smemorata.
La relazione tra la città e la memoria è nella descrizione di Zaira “potrei dirti di quanti gradini sono le vie fatte a scale, di che sesto gli archi dei porticati, di quali lamine di zinco sono ricoperti i tetti; ma so già che sarebbe come non dirti nulla. Non di questo è fatta la città, ma di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato”.
Le città invisibili sono tante e hanno tutte nomi di donna. Isidora Zaira Diomira Dorotea Pirra Laudomia Tecla Tudre Zoe Eutropia Zirma Isaura Smeraldina…sono città della memoria, del desiderio, dei segni, degli scambi, degli occhi, del nome, dei morti, del cielo. Sono città sottili, città continue, città nascoste. Città tristi e città contente. “città che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati”.
Marco Polo le descrive a Kublai Kan. E in fondo ne descrive una sola, implicita. Venezia, la sua città. L’imperatore lo rimprovera “gli altri ambasciatori mi avvertono di carestie, di concussioni, di congiure…mi segnalano miniere di turchesi…prezzi vantaggiosi…e tu? Torni da paesi lontani e tutto quello che sai dirmi sono i pensieri che vengono a chi prende il fresco la sera seduto sulla soglia di casa”.
Ma è questo che piace al Kan. In esse “si può girare in mezzo col pensiero, perdercisi, fermarsi a prendere il fresco, o scappare via di corsa”.
Così io ci ho girato, mi sono fermata a prendere il fresco, mi sono persa, ritrovata. Ora riprendo il viaggio. Tra le mani Paul Auster, trilogia di New York. La quarta di copertina dice “Auster inventa una sua New York fantastica, un nessun luogo in cui ciascuno può ritrovarsi e perdersi all’infinito”.
“Mi chiamo Kathy H. Ho trentun anni, e da più di undici sono un’assistente…. Ci sono stati periodi nella mia vita in cui ho cercato di lasciarmi alle spalle Hailsham, quando mi sono detta che non dovevo più voltarmi indietro. Ma a un certo punto smisi di opporre resistenza”
Kathy racconta. La sua storia è strana. Fatta di termini che lasciano perplessi all’inizio e di un mistero che si svela piano. Lei è “una di quelli di Hailsham” e una cosa è certa, Hailsham è un luogo importante. Tanto importante quanto inesistente. Infatti non esiste più, ma rimane la memoria di esso.
Così con Kath e i suoi amici, Tom e Ruth, inizia un viaggio nella memoria e il luogo di partenza è un collegio nella campagna inglese. I ragazzi che sono lì aspettano. Un destino taciuto all’inizio, ma non per questo non percepito e temuto e accettato con ineluttabilità.
La storia nel suo essere estrema e impossibile è vicina alla storia di chiunque. Ognuno infatti ha un luogo, un tempo, una canzone (Never let me go, Non lasciarmi, è il titolo di una canzone) che rappresentano l’essenza di noi e di quello che siamo stati prima di diventare adulti. Ognuno ha un baule (scatola, cassetto, etc.) dei ricordi e il sogno di un luogo in cui trovare le cose perdute. Ognuno ha avuto almeno un amico o amica in quel tempo e quel luogo e se è fortunato li ha ancora, complici per sempre. Ognuno ha le proprie croci alle spalle e il proprio futuro davanti. Ma, se ci si pensa, è un futuro in prospettiva uguale per tutti. E allora… perché?
La finitezza di tutto sembra togliere senso a qualsiasi cosa. Questa consapevolezza, che solo gli adulti possono avere, rende necessaria l’invenzione di una teoria che addolcisca la pillola, che ritardi (rinvii) l’epilogo. E l’illusione è che da qualche parte ci sia una Madame (o forse un Monsieur?) che possa cambiare il finale. Eppure tutto è destinato a compiersi e anche ciò che ha un’anima a finire.