Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Il delitto di Cogne è entrato in pianta stabile nell’immaginario collettivo. E così anche un processo secondario, come quello che vede Annamaria Franzoni accusata di calunnie nei riguardi del vicino di casa Ulisse Guichardaz, coinvolge numerosi operatori dell’informazione e torna a far discutere la gente.
Al palagiustizia di Torino la Franzoni ha negato di aver mai fatto accuse precise nei confronti di chicchessia e ha specificato di aver fatto i nomi dei vicini di casa unicamente per fornire elementi preziosi agli investigatori. A sorpresa la donna ha dichiarato di non aver nemmeno letto la denuncia predisposta dal suo difensore dell’epoca, Carlo Taormina, e di non ritrovarsi in alcune dichiarazioni presenti al suo interno. In particolare la Franzoni nega di aver mai ricevuto attenzioni sessuali dal suo vicino, così come scritto nella denuncia da lei firmata.
Implicitamente, sul banco degli accusati è finito proprio l’avvocato Taormina, i cui ricordi però non collimano in nulla con quelli della Franzoni. Per il legale la denuncia fu letta più volte e subì diverse modifiche in seguito alle osservazioni persino pedanti fatte dai firmatari.
La Franzoni, condannata in via definitiva a sedici anni, ridotti a tredici per effetto dell’indulto, ha dichiarato al giudice di essersi presentata solo oggi al processo per l’enorme attenzione mediatica che desta ogni sua apparizione pubblica. Durante il lungo interrogatorio ha rievocato i tragici momenti che portarono alla morte del piccolo Samuele ed è scoppiata in lacrime quando ha rievocato gli istanti in cui, a suo dire, scopriva l’atroce stato in cui versava il figlio.
In tanti, a partire dal suo collegio difensivo, fino al professor Ugo Fornari, consulente del Pm Giuseppe Ferrando, sono convinti che la donna davvero non ricordi nulla di quei tragici istanti e sia certa di non aver commesso alcun gesto criminoso, e sottolineano i rischi cui andrà incontro, qualora un giorno dovesse risvegliarsi e rivivere la realtà. Realtà che potrebbe schiacciarla fino a spingerla al suicidio.
Di certo non appare meno semplice la sua attuale condizione. Perdere un figlio di appena tre anni in circostanze simili è agghiacciante. Essere accusati di aver perpetrato quel delitto annichilirebbe la gran parte degli esseri umani. Ma con questo peso, per fortuna, la Franzoni riesce a convivere.
"Oggi concisi che andiamo a trovare Oreste”. Così mi accogliesti quel martedì di inizio 2010. Pochi giorni prima Oreste Scalzone si era sentito male. Era sceso a Napoli per partecipare a una giornata di studi dedicata a Roberto Silvi. Dovevamo parteciparvi anche noi, ma tu fosti trattenuto a Procida da un impegno all’ultimo momento e io non ebbi modo di intervenire. D’altronde mi avevi avvertito “Devi vedere se riesci a parlare…”.
Oreste, dicevamo, si era sentito male davvero ma, come al solito, aveva dato nessuna importanza alla cosa ritenendo di non poter mancare a un impegno al quale teneva. I medici dissero che ci era mancato poco.
La prima volta c’incontrammo ai Quattro Palazzi. Mi sorprendesti alle spalle dove, ci avrei giurato, un attimo prima non c’era nessuno. Salimmo al tuo studio e lì, una sedia davanti all’altra, cominciammo a parlare. Il sole, quel giorno come tutti quelli che seguirono, batteva sempre alle tue spalle. D’altronde eri tu l’uomo di mare.
Bastò un incontro per capire che se volevo davvero conoscere e comprendere la pagina dei Nuclei Armati Proletari, non restava che buttarsi alle spalle tutta una serie di incrostazioni e di pregiudizi e mettersi all’ascolto. Iniziavo un lavoro che mi avrebbe cambiato per sempre.
Dopo il primo, i nostri martedì si susseguirono. I discorsi si infittivano. Riprendevi tra le mani il tuo tempo passato e lo facevi con grande serenità. Anche se il dolore era vivo e ardente come il sale in una ferita fresca. Ti piaceva sentire anche i miei racconti. Tutte le voci che in giro per l’Italia ero riuscito a raccogliere. Ti commuovesti per l’incontro con i compagni fiorentini e mi raccontasti, senza risparmiarti, chi erano Luca e Annamaria.
Quando incontravo qualche rifiuto, giustificavi chi non aveva voglia di parlare e mi incitavi ad andare avanti. Sorridevi quando ti raccontavo che avevo incontrato il giudice sequestrato dai Nap, e ascoltavi con grande attenzione le parole di un uomo che per la vostra storia mostrava un sincero rispetto. Sorridevi quando ti riportavo il desiderio di incontrarvi espressomi dal pubblico ministero che trentacinque anni prima aveva richiesto per voi pene durissime.
“Pure questo hai incontrato!” mi dicesti trasmettendomi un calore fraterno quando ti riportavo l’incontro con il poliziotto che combatteva per il suo stato e per la difesa della democrazia con torture e violenze. Già, la democrazia. “Sei incredibile” mi dicesti con il tuo sorriso pieno di mare quando ti portai i saluti di Giorgio Panizzari che ero riuscito ad incontrare nel carcere di Spoleto dove scontava l’ergastolo grazie alla faticosa autorizzazione ottenuta dal ministero di grazia e giustizia.
“Oggi concisi che andiamo a trovare Oreste”. Con il passare del tempo i martedì divennero per me un momento di crescita di cui non avrei più potuto fare a meno. Non di rado finivamo per discutere intensamente confrontandoci sugli argomenti più disparati. Sulla camorra capitò più di una volta di scontrarci. Eppure le tue riflessioni, mai scontate, mostravamo un’apertura mentale figlia della reale conoscenza.
Dei pescatori parlavi sempre con un trasporto paterno. Il telefono squillava spesso. E tu cercavi sempre di tenere in piedi quell’unione che avevi saputo creare. Con quella tua straordinaria capacità di linguaggio che avevi sempre avuto in dote. Eri in grado di dialogare con i pescatori parlando in un linguaggio comune per poi, con assoluta naturalezza, andare dal politico di turno a rappresentare le esigenze di una classe che, forse per la prima volta, portava avanti delle istanze condivise, anziché pensare ognuno al proprio particolare. D’altronde eri abituato a far questo sin da quando a Poggioreale dirigevi una commissione dei detenuti insieme a un politico regionale, finito in quei luoghi ameni per tutt’altre circostanze.
Poi, d’improvviso, guardavi l’orologio e imprecavi “Mannaggia a’ capa tua”. Se avevi qualche lavoro da portare avanti mi mettevi alla porta senza troppi complimenti e alla mia ultima domanda, cui sempre ne seguivano altre, mi replicavi “Mo’ te ne devi solo andare.” Altrimenti mi chiedevi di accompagnarti da tua madre ed era altro tempo da condividere. Anche se non ti capacitavi quando ti chiedevo di indicarmi la strada, vittima del mio noto senso dell’orientamento, e mi domandavi “Ma sei di Napoli, o no?”
Una volta incontrammo mia moglie. Pochi sguardi e un paio di domande veloci per capire chi avevi di fronte e poi la sentenza: “E’ duro stare con un rompiballe come tuo marito!” Aveva superato l’esame.
“Oggi concisi che andiamo a trovare Oreste”. Il libro andava completandosi tassello dopo tassello. Mancava poco alla conclusione quando ti chiedesti “E io con chi parlerò di queste cose?” Ti contraddissi. Se speravi di liberarti di me ti eri sbagliato. E infatti anche quando il libro fu pubblicato ci vedevamo, meno frequentemente, per raccontare come stavano andando le presentazioni e cosa avevano detto i diversi relatori. Tu il libro lo leggesti sul traghetto. Mi chiamasti per dirmi cosa ne pensavi, ma eri al largo di Capo Miseno e la linea cadeva in continuazione. Toccava attendere l’indomani. “Ci stanno parecchie fesserie, però…”
Alle presentazioni non eri mai intervenuto. Fino a quella che ci fu al centro sociale 081. Condita dalla consueta discussione dopo l’incontro. Maggio 2011. La sera con Tonino ti accompagnammo a prendere l’ultimo traghetto per raggiungere la tua Procida. Fu l’ultima volta che ci vedemmo prima del bastardo.
Mi chiamasti dall’ospedale. Ovviamente la sera mi persi tra i padiglioni, ma questo non ti sorprese. Mi raccontasti con la giacca d’improvviso larga, di come era iniziata, delle stupide rassicurazioni dei medici. Fino a quando l’ipotesi pancreatite aveva lasciato spazio a un timore più grande.
“Credi che non sappia come andrà a finire?” E mi parlasti di tuo padre. Ti chiedo scusa oggi, a distanza di meno di due anni Nicola, per averti detto che quei discorsi non li volevo nemmeno sentire, che sarebbe stata una battaglia durissima, ma che ne avevi vinte e combattute di peggiori. Non volevo vedere le cose per quel che erano.
Eppure, Nicola, tu la battaglia l’hai combattuta con tutto te stesso. Con una forza sovraumana figlia del desiderio bestiale di vivere e dell’amore immenso per chi non volevi lasciare solo per nessun motivo al mondo.
Qualche giorno dopo quando ti raggiunsi sull’uscio della stanza c’era un ragazzo: “Appena puoi andare da mio padre, altrimenti lo sai come è fatto, si abbatte”. Eri in ospedale da pochi giorni e già ti conoscevano tutti per quel che sei, per la tua generosità, per la tua capacità di farsi carico degli altri. E tu andavi di stanza in stanza a vedere come essere di aiuto, come organizzare meglio i problemi altrui.
“Uagliò, l’hai scampata!” mi avvertisti la mattina che ti stavano dimettendo: non avrei quindi dovuto fare la notte al tuo fianco come concordato. Perdonami Nicola, ma noi siamo bestie e ora a me quella notte manca. Vorrei averla vissuta per avere più legna da ardere per riscaldare il cuore.
Forse uno dei pochi argomenti che abbiamo appena lambito è il post mortem. La visione imperante nella sinistra antagonista, spesso figlia di un lucido raziocinio, altre volte di uno sterile schematismo, dichiara senza tema che dopo la morte non vi è nulla. Probabile sia vero, ma se così non fosse mi piace immaginarti discutere con il padreterno suggerendogli delle chiare migliorie che si possono apportare per rendere più piacevole la condizione di tutti.
“Disturbo?” Non dimenticherò mai il regalo che mi hai fatto Nicola. Quella telefonata da Milano, prima di scendere per l’ultima volta a Procida. Eri sempre meravigliosamente vivo, caldo, fraterno. Nella tua voce stanca la voglia di sapere, di ridere, di vivere. E quando ci eravamo salutati, ancora l’ultima domanda “Aspetta, come è andata a finire poi…” Eppure te ne avevo parlato solo una volta, e tu avevi appena avuto una lunga e dura operazione chirurgica. Ma non avevi dimenticato.
Né dimenticherò mai il silenzio che c’era venerdì al Pozzo Vecchio. Nelle isole anche i cimiteri vivono di una luce diversa. Vi sfido a trovarne altri sul continente, circondati non da cipressi ma da alberi di limone. E con le onde pronte a rinfrescare il viso dalle lacrime. Quel silenzio non l’ho mai sentito, Nicola. C’erano almeno cento persone lì con te. Tutte sconvolte dal dolore, certo. Ma non c’era solo il dolore in quel silenzio. C’era la rabbia, l’incredulità. Quei quattro assi di legno erano una bestemmia.
Ti ho davanti agli occhi. Ti sto dicendo che non credevo potessi morire. E tu mi rispondi con il tuo solito sorriso e gli occhi pieni di sfida “O’ ver? E perché? ”
E te lo spiego io perché, Nicola. Perché il dolore che hai portato sempre dentro di te per i tanti, troppi compagni persi nel tentativo di arginare le brutture di un mondo, perché 20 anni di carcere e altrettanti di sacrifici figli della coerenza e del rispetto per una storia, perché nulla di tutto questo era stato capace di cambiarti, di non pensare al prossimo, ai suoi bisogni prima dei propri.
Perché la vita aveva un futuro dopo di te e tu volevi viverlo il più a lungo possibile.
Per questo Nicola c’era quel silenzio.