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Quando uno scrittore accetta che una sua opera diventi pubblica deve tener conto che da quell’istante il libro non è più di sua proprietà, ma appartiene a tutti. Effetto di questa appartenenza collettiva è la libertà che chiunque può assumersi di criticare il testo, finanche giungendo a definirlo poco valido.

Non è questo ciò che ha fatto Sergio Lambiase nella sua recensione del mio libro sui Nuclei Armati Proletari. Al contrario, Lambiase lo ha definito intenso e ben documentato. A lasciarmi amareggiato è stata però la conclusione dell’articolo, lì dove Lambiase definisce ambiguo il libro - e persino il suo titolo - e vi rintraccia nientemeno che l’auspicio di un ritorno alla lotta armata. Affermazione del tutto infondata che merita una doverosa smentita.

Ho compreso il motivo del perché fino ad oggi nessuno si fosse mai accostato ai Nap quando decine di testimonianze mi hanno rivelato il volto tragico e intenso di una esperienza del tutto originale nella galassia delle formazioni che scelsero la lotta armata. In particolare era nuovo il soggetto rivoluzionario che i Nap ponevano al centro della loro azione. Non la classe operaia, ma il proletariato extralegale, l’emarginato, l’estraneo alle magnifiche sorti e progressive, fatte baluginare dal Novecento.

I Nap portarono alla ribalta la sciagurata realtà delle carceri e dei manicomi. Le morti di Federico Aldovrandi e Stefano Cucchi, i suicidi che si susseguono nelle carceri – l’ultimo pochi giorni fa all’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa – dimostrano come in Italia il tempo non passi mai.

Per raccontare i Nap ho scelto l’unica strada possibile. Né romanzi pasticciati, né saggi pedanti potevano racchiuderne per intero il pathos. Meglio farsi da parte e dare la voce ai protagonisti dell’epoca. Gli ex nappisti dunque, ma non solo. Le vittime dei loro attentati, i poliziotti che li braccarono, gli avvocati che li difesero, i magistrati che li condannarono.

Vorrei che il futuro fosse oggi descrive in modo fedele la parabola nappista, ma non è certo un libro anestetizzato. Senza ambiguità ho espresso forti dubbi su alcune operazioni di polizia terminate con le morti di militanti nappisti. Uno stato democratico non può risolvere i contrasti soffocandoli nel sangue. Come pure ho sottolineato la piega folle presa d’un tratto dai Nap che disperdevano tutta la propria carica primitiva, producendo attentati che a nulla servivano se non a generare tragedie inutili.

Chi dunque scorge nel libro un inno alla lotta armata non solo è lontano dal vero, ma, cosa ancor più grave, si chiude al confronto. Viviamo un’epoca difficile, il lavoro non è più un valore certo e le pulsioni sociali crescono a dismisura. I più giovani vivono un tempo disorientante. E’ il momento di fermarsi, comprendere, crescere.

Ancora oggi la pagina dei Nap rappresenta un nervo scoperto. A coloro i quali preferiscono chiudere la bara dei ricordi e con essa sotterrare le proprie responsabilità storiche, fanno da contraltare i tanti giovani che, come assetati, hanno trovato in questa storia un tassello che mancava alla loro conoscenza.

Sarebbe interessante trasferire sulle colonne di questo giornale il dibattito che sorge ogni qual volta discuto in pubblico del libro. Raccogliere i ricordi di quella stagione, e ancor più i disagi di un presente angusto e soffocante all’interno di una società che, presto o tardi, dovrà tornare a riscrivere le proprie regole.

Le scosse che da Pomigliano a Mirafiori attraversano la Fiat, pur nascendo all’interno delle fabbriche, riflettono non più un ormai superato scontro di classe, ma la precarietà di esistenze costrette a fare i conti con un futuro spettrale. Non possiamo liberarci da una speranza. Quella di un futuro migliore, di una società più equa, capace di offrire a tutti i beni essenziali a una vita dignitosa, riducendo, o magari annullando, le laceranti sperequazioni cui oramai siamo abituati. Ricchezze infinite nelle mani di pochi e milioni di persone costrette a inseguire per tutta una vita il senso disperato della loro esistenza.

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Di Admin (del 11/01/2011 @ 13:24:20, in Vorrei che il futuro fosse oggi , linkato 2563 volte)

E' Erri De Luca ad aprire il libro di Valerio Lucarelli Vorrei che il futuro fosse oggi. Ribellione, rivolta e lotta armata racconto delle gesta dei Nap, che debuttarono ufficialmente con gli ordigni piazzati davanti a Poggioreale, San Vittore e Rebibbia - il 1° Ottobre del 1974 - col perentorio invito ai detenuti a intensificare la lotta "contro i lager borghesi" fino alla "rivolta generale nelle carceri".

Dice dunque De Luca all'autore, trasformando la nudità del terrorismo in racconto, in fabula, perfino in rimpianto, a proposito di Giuseppe Sergio Romeo, il nappista di Aiello del Sabato, nell'avellinese, ucciso nel fallito assalto ad una banca di Firenze il 29 ottobre di quello stesso anno, insieme a Luca Mantini, uno degli "angeli del fango" dell'alluvione del '66: «Ho conosciuto bene un ragazzo, abitava con me. Si chiamava Sergio, Sergio Romeo. Aveva vissuto tanta parte della sua giovane vita nei riformatori che aveva perso la misura del proprio corpo. Quando camminava in casa Sergio sbatteva contro gli stipiti delle porte, urtava i tavoli, non riusciva a misurare il suo corpo con lo spazio».

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Di Admin (del 05/01/2011 @ 14:41:59, in Vorrei che il futuro fosse oggi , linkato 2506 volte)

Nell'opera di esordio Buio Rivoluzione, Valerio Lucarelli utilizzava il genere letterario noir per ipotizzare un ritorno delle Brigate Rosse - nel pieno dell'era berlusconiana - sulla scena politica italiana. Fatalità voleva che proprio negli anni in cui l'autore lavorava al romanzo, le nuove Br venivano allo scoperto firmando il terribile delitto del giuslavorista Marco Biagi.

L'interesse di Lucarelli per la tematica della lotta armata traspare anche nel suo secondo libro, pubblicato di recente e subito al centro di un acceso dibattito. Vorrei che il futuro fosse oggi. Ribellione, rivolta e lotta armata (L'ancora del Mediterraneo, pagg. 210) unisce infatti la passione giornalistica per l'inchiesta all'abilità narrativa nel ricostruire una storia per troppo tempo taciuta o accantonata: quella dei Nuclei Armati Proletari, la formazione terroristica sorta a Napoli negli anni Settanta e composta da oltre cento militanti, attivi anche dentro il carcere e strutturati in maniera più libera rispetto ad altre organizzazioni.

Nel libro Lucarelli decide di incontrare dal vivo i protagonisti dell'epoca e di riportare fedelmente le conversazioni tenute con loro. Il lavoro di documentazione è notevole e l'impressione che emerge da una prima lettura è quella relativa al grande sforzo affrontato dall'autore per superare le reticenze, le omissioni e le rimozioni relative a un periodo storico di cui non si è ancora discusso abbastanza: ne viene fuori un puntuale affresco in cui ex terroristi, parenti delle vittime e inquirenti discutono sugli oltre tre anni di attività dei Nap, riportando alla luce testimonianze ed episodi inediti.

Nel testo vengono infatti messi in rilievo non solo i fatti di cronaca poco noti al grande pubblico - dal sequestro dell'imprenditore Moccia a quello del giudice Di Gennaro - ma anche diversi aneddoti che sottolineano il clima decisamente «complesso» in cui matura l'esperienza terroristica. Se le Brigate Rosse furono un'esperienza legata inscindibilmente all'universo delle fabbriche settentrionali, i Nuclei Armati Proletari nacquero nel «contesto fluido» del sottoproletariato napoletano, segnato dall'alto tasso di disoccupazione, dalla presenza della criminalità e da una diffusa rabbia per le profonde disparità sociali. Non a caso, furono diversi i momenti in cui vennero realizzate inedite alleanze strategiche con la malavita.

Roberto Marrone, ad esempio, ricorda con ironia il suo scontro con un camorrista nel carcere di Poggioreale, in seguito al quale ricevette addirittura il plauso e l'aiuto del boss della Nuova Camorra Organizzata: «Dopo poco fui accompagnato dal vero direttore del carcere. A lui solo dovevo rendere conto del mio gesto. Entrai nella cella di Raffaele Cutolo e attesi il suo responso. Mi disse che sarebbe bastato un suo cenno e per me sarebbe finita. Poi aggiunse, sorridente, che io gli piacevo, che la gente come me credeva in quel che faceva e meritava rispetto. Da quel momento nessuno più mi diede fastidio».

La tesi di fondo di Lucarelli è che i Nap abbiano rappresentato una parentesi anomala nel terrorismo italiano, dominato dalla maggiore visibilità mediatica di gruppi come le Br o Prima Linea. Il potere di queste organizzazioni fu per altro dovuto alla presenza di una massiccia componente teorico-intellettuale, che comportò una profonda riflessione preliminare sui metodi della lotta armata e sulla propria strutturazione militare (la cosiddetta «compartimentazione», ovvero la separazione gerarchica di ruoli e competenze). I Nuclei Armati Proletari invece scontarono il limite di una libera organizzazione interna e di una suddivisione in cellule, spesso troppo deboli e ristrette.

Ma forse l'elemento fondamentale va rilevato nella diversa estrazione sociale. Esauritasi la loro esperienza, i nappisti tornarono infatti a ripopolare l'universo «perduto» da cui erano venuti fuori: chi morto o in prigione, chi in manicomio. Chi disoccupato e chi inserito nell'attuale contesto del lavoro precario.

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