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Recensione di Andrea Consonni per Lankelot
Di Admin (del 31/12/2010 @ 18:56:37, in Vorrei che il futuro fosse oggi , linkato 2332 volte)

“La cartina che mi accompagna dall’inizio del viaggio non indica più la direzione. Al contrario, me ne devo disfare al più presto e lasciare la strada tracciata da altri. Un azzardo che presta il fianco agli attacchi bipartisan di una certa critica e degli ex nappisti. La prima, pronta a stroncare una ricostruzione non conforme alla vulgata imperante. I secondi dubbiosi di fronte a una visione niente affatto accomodante. C’è un pericolo, tuttavia. Ascoltare le disavventure di un giocatore vissute in nome della febbre che lo attanaglia può risultare affascinante. Fin troppo facile giustificare bonariamente, quando non provare una simpatia istintiva. Ove poi il racconto sia levigato dal tempo, si rischia di avvolgerlo in un’aurea mitizzante. Osservare con i propri occhi un uomo che si consuma giocando può risultare osceno fino alla nausea. Questo libro è fatto di testimonianza vive, autentiche, ma spuntate dal tempo. Non si tratta di un limite ma di una circostanza obiettiva che deve aiutarci a non scivolare in un’epopea deformante. Quella che stiamo raccontando è e rimane una storia acre. Non si tratta di solidarizzare né per il gioco, né per il giocatore ma di comprendere, metabolizzare, crescere.” (Valerio Lucarelli, pag. 110)

Per il sottoscritto aprire un libro, saggio o romanzo che sia, dedicato al ’68, agli anni del terrorismo, delle stragi nelle banche, nelle piazze, nelle stazioni, dei rapimenti non è una operazione affatto semplice. Significa riaprire capitoli di storia familiare, di istanze tradite, di dolori e lutti, di solitudini e senso di sconfitta. E’ come ritornare ai primi del ‘900 e riannodare i fili che mi legano ai miei avi, alle loro battaglie, a quel mio bisnonno socialista picchiato dai fascisti persino in sanatorio, a un mio nonno partigiano e ad un altro lavoratore coatto in Germania da cui tornò col fisico e la mente a pezzi, ai familiari impegnati nelle lotte degli anni ’60. E’ riassaporare sulle labbra quel senso di rivoluzione mancata, di rinnovamento mai compiuto, di uno stato delle cose mai sovvertito. E’ ritornare ad interrogarsi sul passato e sul presente con un carico di sofferenze e dubbi che mi rovinano sempre lo stomaco. E’ la discussione infinita sui compagni che sbagliano oppure no, su chi sia uomo e chi non lo sia, su chi meriti di vivere e chi no. Su cosa sia davvero una pozza di sangue a terra. Se penso alla bomba nella stazione di Bologna, le mie mani si riempiono di sudore, perché è solo per un improvviso cambio di programma di mio padre che io, mia madre e mia sorella siamo ancora in vita.

Questi sono alcuni dei motivi che mi spingono spesso ad evitare questi libri o le analisi che puntualmente tornano a riempire i giornali, spesso scritte dagli stessi protagonisti di quegli anni, molto spesso protagonisti di operazioni di ripulitura quanto meno discutibili. Ma ce ne sono anche degli altri come la pochezza delle argomentazioni, il loro spirito partigiano a seconda del colore politico, o il privilegiare le tesi complottistiche (utili anche a lavarsi delle proprie colpe) ma anche la tendenza di molti commentatori a dipingere i responsabili di quegli atti efferati come dei casi psichiatrici, dei mostri partoriti da qualche Geenna di fuoco e fiamme, assetati di sangue come dei vampiri.

Ed è per questo che sono rimasto profondamente colpito e confesso anche commosso dal saggio di Valerio Lucarelli “Vorrei che il futuro fosse oggi. Nap, ribellione, rivolta e lotta armata” dedicato all’organizzazione armata dei Nap – Nuclei Armati Proletari attiva negli anni ’70 e responsabile in tre anni, dal 1974 al 1977, di due omicidi, quattro sequestri di persone, decine di attentati, assalti alle sedi dell’MSI e svariate evasioni. La loro storia si concluderà nel 1977 con il maxiprocesso di Napoli che inflisse pene di 289 anni e 11 mesi di carcere a 22 nappisti.

Perché commosso e colpito? Principalmente perché Lucarelli dimostra sin da subito la volontà di liberarsi da pregiudizi di ogni sorta che impediscono un’attenta valutazione del fenomeno dei Nap e più in generale del contesto entro cui si muovevano, quello di uno stato sempre pronto ad una svolta autoritaria per difendere una presunta democrazia, venando la sua ricerca di un’empatia, di una vicinanza umana verso gli appartenenti di quel gruppo, le cui testimonianze Lucarelli recupera con difficoltà, senza mai dimenticare le loro colpe, i loro errori, il sangue sparso, i lutti di cui si sono resi responsabili.

Il senso della missione di Valerio Lucarelli è racchiuso in questo passaggio a pagina 11: “Il primo ex nappista incontrato è stato Nicola Pellecchia. Da anni vive a Procida, l’isola di Arturo. Il mare come barriera protettiva. Un pomeriggio gli descrissi i miei contatti fiorentini che un tempo avevano animato il Collettivo Jackson. Di norma, deciso, il timbro della voce di Nicola parve per un attimo incerto. “Sai che Annamaria era la mia compagna?”. Annamaria Mantini, nappista come il fratello Luca, trovò la morte nel luglio 1975, due mesi dopo il sequestro del giudice di Gennaro. Con garbo, Pellecchia mi rivelava qualcosa di intimo, di profondo. Non risposi. Capii che quel pensiero non era concluso. “Sono stato a Firenze, ho chiesto informazioni, ma invano. Mi sono rivolto anche all’autorità cimiteriale. Senza successo. Credo che i compagni di Firenze sappiano bene dove è sepolta. Se lo venissi a sapere…Mi piacerebbe andarla a trovare”. Il suo problema diveniva mio. Prima di ogni ricostruzione, era per me doveroso scoprire dove Annamaria Mantini riposava. Riuscii a saperlo. Se il senso del mio lavoro era quello di riannodare i fili strappati, sentivo già di averne ricucito uno.”

I NAP furono una formazione atipica degli anni ’70, considerati da molti marginale e destinata ad auto dissolversi in un vicolo cieco, quello della lotta armata. Usciti in parte dall’alveo di Lotta Continua, ritenuta incapace di portare sul piano pratico la lotta contro lo Stato, nei NAP confluiranno anche elementi fuoriusciti dalla FIGC, da altri movimenti extraparlamenti, dai movimenti cattolici o anche solo provenienti dalla delinquenza comune, da quelle bande di rapinatori diventate tragicamente famose “Il motto delle bande “Portare a casa i soldi. Riportare a casa tutti” è una filosofia sposata appieno dai Nap. In modo istintivo, come dimostra Luca Mantini nella drammatica rapina di piazza Aliberti, quanto progettuale, mirando a evadere dai penitenziari di tutt’Italia nei quali venivano racchiusi” (pag. 111) e fondamentale per l’organizzazione fu l’apporto delle donne.

Distanti dall’ortodossia marxista-leninista delle BR con le quali ci furono svariati i momenti di frizioni e con le quali ci furono legami operativi quasi più opportunità (ma entro cui confluiranno i nappisti superstiti), i NAP si rivolgevano agli ultimi. E dov’erano gli ultimi? Nelle carceri, nei manicomi, fra quel sottoproletariato, il Lumpen, così tanto disprezzato anche da Carlo Marx. Combattevano per le marginalità auspicandosi una rivoluzione che non avverrà mai. A dimostrazione dell’ambito entro cui si muovevano basta citare il documento uscito nel 1974 “Nuclei Armati Proletari, Autonomia Proletaria - Nucleo esterno movimento detenuti" o la campagna sempre del 1974 “Rivolta generale nelle carceri e lotta armata dei nuclei esterni"

“Analizzando gli anni Settanta non è difficile cogliere l’assoluta particolarità di un gruppo nato non da spinte ideologiche ma da pulsioni cui le istituzioni non sapevano o non volevano fornire alcuna risposta. I Nuclei armati proletari rappresentavano dunque una concreta minaccia all’ordine precostituito. Potevano costituire l’innesco di una gigantesca polveriera pronta a esplodere da un momento all’altro. Al Nord, trasformato dalla grande migrazione dal Mezzogiorno che aveva sfigurato il territorio, al cui interno si erano sviluppati interi quartieri, quando non cittadine, dove un’edilizia senza freni né decoro rubava il fiato a qualsiasi pur lontana parvenza di futuro. Ma soprattutto al Sud emarginato, largamente illetterato, dove lo stato dava prova quotidiana della sua manifesta latitanza e una nuova criminalità si preparava a metter radici per scippare il domani di quelle terre. E ancora, l’intreccio originale, e perciò temibile, fra studenti della piccola borghesia e il proletariato extralegale, E’ cruciale comprendere fino in fondo l’abbraccio fra giovani universitari e Lumpen. Gli studenti, talvolta accesi da presuntuose certezze, decidono di imboccare una via, scelgono razionalmente di sferrare un assalto alle istituzioni. E lo fanno affrancandosi da remore e pregiudizi, facendo propria la carica dirompente sbrigliata dalla rivolta degli ultimi, più o meno consapevoli del paracadute garantito dal ceto sociale di appartenenza. Gli extralegali no. Loro non decidono. Animati dal fuoco della ribellione, spinti dall’urgenza di prendere l’iniziativa e dall’illusione che ciò possa mutare qualcosa, cementati da rapporti fraterni e immuni da ogni integralismo fideistico, vanno allo scontro in modo del tutto naturale, coscienti delle conseguenze. Deviante affermare che non avessero nulla da perdere. Accadde infatti che dall’altro lato non se ne stettero con le mani in mano. E si sprofondò nel dolore di sempre. Né sarà da meno il durissimo epilogo entro cui andranno incontro al termine di quella tumultuosa stagione.” (pag.109)

La storia che racconta Valerio Lucarelli non è solo la storia dei Nap, delle altre formazioni armate, della sinistra extraparlamentare ma quella di un intero paese, il nostro, non solo quello degli anni ’60 ma anche quello attuale incapace di mettersi in dubbio, di recepire le pulsioni positive che talvolta salgono dagli strati più bassi della popolazione, dagli ultimi, dai carcerati. Per chiudere questa dolorosa recensione mi limito ad un ultimo passaggio di questo saggio dedicato al carcere, obiettivo prediletto dei Nap e fondamento della società, un passaggio che dimostra ancora una volta come il nostro paese (e non solo) sia incapace di cambiamenti, come insomma il passato non insegni mai davvero nulla.

“I numeri indicati dal ministro della Giustizia Angelino Alfano alla festa della polizia penitenziaria del giugno 2009 si commentano da soli. Duecentosei istituti penitenziari in grado di ospitare non più di 43.262 detenuti ne stipano oltre 63.350. A giudizio del ministro il sovraffollamento è causato dalla fitta presenza di detenuti stranieri, circa 24.000. Numeri che crescono ogni giorno di più, appena tre anni dopo un indulto che aveva fatto uscire 26.201 detenuti. Nel 2008 almeno centoventuno morti nelle prigioni di cui quarantotto i suicidi accertati. Nel 2009 i suicidi salgono a settantuno, uno scioccante primato. Non certo migliore la situazione negli Ospedali psichiatrici giudiziari. La rivoluzionaria legge 180, pensata dallo psichiatra Franco Basaglia, è stata essenziale per la chiusa dei manicomi. Ma a tutt’oggi in Italia sopravvivono sei Opg. Gli istituti di Aversa, Barcellona, Pozzo di Gotto, Castiglione delle Stiviere, Montelupo Fiorentino, Napoli e Reggio Emilia ospitano al loro interno oltre millecinquecento detenuti, la stragrande maggioranza dei quali internati. Una buona fetta di questa popolazione non rappresenta più un pericolo per la società ma, in mancanza di strutture adeguate pronte ad assisterli, viene loro preclusa ogni altra possibilità se non quella di restare a vita in un ospedale psichiatrico. In un suo rapporto, seguito a una visita compiuta nel settembre 2008, il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa ha parlato di trattamenti inumani e degradanti subiti da alcuni internati legati al letto per giorni e giorni, sdraiati su un materasso con un foro al centro sotto al quale è disposto un secchio per gli escrementi. I padiglioni sono definiti “disgustosamente sporchi”, i servizi igienici in pessime condizioni, viene denunciata la presenza di ratti. Situazioni deprimenti che hanno prodotto anche cinque suicidi in poco più di un anno a cavallo del 2008.” (pag. 105-106)

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